Sulle nostre colline, a partire da un'altitudine di sette-ottocento metri, l'ulivo cede il passo al castagno la cui coltura, oggi abbandonata, fu per secoli patrimonio vitale nella povera economia di sopravvivenza delle nostre genti di montagna.
Il castagneto fornisce eccellente legname, offre un habitat ideale a numerose specie di selvaggina, dà legna da ardere, alimenta funghi e frutti spontanei; ma soprattutto produce la preziosa castagna che dall'alto Medio Evo fino a tutto l'Ottocento costituisce l'economico alimento di base delle popolazioni dell'intero arco appenninico ligure.
Per poterle conservare durante tutto l'anno, le castagne vengono depositate al piano superiore dell'"aubergu", piccola costruzione a due piani realizzata nel castagneto a ridosso di una fascia, dove i frutti vengono distesi sul graticcio che divide i due piani, e fatti seccare grazie al fuoco che si accende al piano terra; da cento chili di castagne verdi si ricavano meno di quaranta chili di castagne secche.
Per sbucciarle, le castagne sono quindi messe in un sacco (unto di sapone all'esterno affinché non si logori troppo) che viene sbattuto ripetutamente su di un ceppo oppure, distese a terra, sono battute con "a cauda", due bastoni uniti da una cinghia o con un attrezzo in legno a base cuspidata. Infine sono passate al "vallu", fatte cioè ricadere ripetutamente in un cesto dal bordo molto basso esposto al vento che disperde le leggere bucce frantumate.
A ribadire la determinante importanza della castagna nell'alimentazione delle genti di montagna restano i loro proverbi, spesso conditi di amara autoironia.
Preziose e quindi da non sprecare, suggeriscono il detto: "Ferùe, perdùe; bruschèe, bruscièe; perèe, mangèe;" (ballotte = sprecate; arrostite = bruciate; pelate = mangiate), che consiglia il modo di cucinarle che ne determina il minor spreco.
La dieta varia amaramente da: "Aa matìn, castagne; au dì, pestuni; aa sea, castagnùn" (al mattino, castagne; a pranzo, pezzi di castagna; alla sera, castagnaccio); a chi poi si stufa, viene consolatoriamente ricordato che "Quande u buccùn u l'a passau u gargantùn, tantu i sun e castagne che u magrùn" (quando il boccone ha passato la gola, tanto son le castagne che la carne); mentre il conclusivo: "A chi l'a famme, e castagne i pan lasagne" (a chi ha fame le castagne sembrano lasagne) ci ricorda che per i nostri montanari un semplice piatto di lasagne fu già un sogno luculliano, da coltivare ad occhi aperti mentre si trangugiano castagne per levarsi almeno la fame più grossa e prepararsi così ad una nuova giornata di duro lavoro.
I generosi castagneti, partecipi testimoni di tanti sacrifici, fioriscono ora abbandonati sulle nostre montagne a verdeggiante memoria di tempi tanto duri da sembrare oggi quasi incredibili; e non sono passati da allora neppure cent'anni.