Il Medio Evo

Apricale - Municipio - Originale in pergamena degli Statuti del 1247
Apricale - Municipio - Originale in pergamena degli Statuti del 1247

La nostra storia non è fatta solo di guerre e di sangue. 

Allo spirare del millennio, il fatale passo dell'Apocalisse riassumibile nella frase: "Mille e non più mille" diffondendo un generale terrore per l'ormai imminente fine del mondo, induce i possidenti più pavidi e peccatori a prenotarsi un posto in Paradiso versando generose oblazioni agli Ordini Religiosi, determinandone lo sviluppo che porta a fondare attorno al Mille i primi monasteri Benedettini in Riviera.

Da quel tempo, comincia qui la coltivazione dell'ulivo (già presente nelle nostre zone) sotto la guida materiale e spirituale di quei monaci operosi che vivevano sul serio la loro severa regola "Ora et labora" (prega e lavora)(1).

Opera immensa, tenacemente perseguita per secoli con il progressivo disboscamento delle selve, comincia il terrazzamento del terreno impervio e roccioso.

La continua lotta tra vescovi e conti favorisce, sulle coste liguri, la formazione delle "compagne": associazioni di uomini liberi, plebei e nobili, che - forti del loro potere economico - favoriscono la creazione del "Comune". Si crea così un nuovo scenario: nell'entroterra i feudatari continuano ad amministrare i territori dai loro castelli, sulla costa i Comuni svolgono una vita politica ed economica autonoma.

Nei fiorenti borghi della Riviera migliorano allora non solo le condizioni economiche, ma anche quelle sociali: fra l'altro la gente riesce finalmente ad ottenere dal feudatario locale lo Statuto, prima forma di codificazione scritta delle leggi civili e penali(2).

È questa l'epoca in cui in ogni paese le lotte interne si sono ormai risolte con l'affermazione della famiglia più ricca e spregiudicata che, sbarazzatasi della concorrenza interna ed acquisito il dominio sul borgo, comincia a guardare al di là delle mura nella famelica ricerca di nuovi possedimenti che ne accrescano ricchezza e potenza, perennemente inadeguate all'ambizione che le sostiene.

Dal Mille in avanti - al potente polo ecclesiastico rappresentato dai Vescovi di Albenga e di Ventimiglia, ma soprattutto dall'Arcivescovo di Genova - si contrappone così da un lato la crescente potenza della Repubblica di Genova e dall'altro l'affermarsi delle più intraprendenti Signorie locali in un mosaico estremamente variegato e composito.

L'estremo Ponente è in mano ai Conti di Ventimiglia che dominano anche la valle del Maro. I feroci Doria compiono sanguinarie scorrerie tutto attorno alla loro base di Dolceacqua. Dalle loro roccaforti di Pieve di Teco e Prelà, gli onnipresenti Clavesana si espandono in valle Impero e nel dianese da un lato e verso ponente dall'altro.

I Del Carretto premono da levante, i Lascaris si affacciano da Briga e si trapiantano a Pantasina e nella valle del Maro, i Grimaldi di Monaco si infiltrano da ponente. Gli Spinola ed i Doria intrallazzano a Genova ed i Lengueglia allungano le mani da San Lorenzo.

Il Ponente Ligure interessa anche potenze molto più lontane come i milanesi Visconti e Sforza(a più riprese Signori di Ventimiglia) o come i vicini Savoia che, cocciutamente, comprano e poi difendono con le armi ogni pezzetto di terra che li avvicini al mare; dalla Provenza, i d'Angiò (prima i due Carlo e poi Roberto) tentano a più riprese di annettersi addirittura l'intero comprensorio.

Il titanico scontro fra Impero e Papato consente a vescovi, conti e marchesi di cui pullula il Ponente giochi di alleanze e cospirazioni che determinano il susseguirsi di vendite e scontri armati fra le diverse Signorie, impegnate nell'inesauribile impresa di allargare i propri domini e di vanificare nel contempo le analoghe pretese altrui(3).

Tutti i centri del Ponente subiscono ripetute compravendite in un gigantesco gioco del Monopoli che determina intricate matasse di contestazioni che dal tavolo del giudice scivolano sovente al campo di battaglia, coinvolgendo non solo i diretti interessati ma anche i rispettivi alleati (con il corollario dei vicini), ciascuno con le proprie rivendicazioni da far valere(4).

Come sempre accade, una potente forza esterna in grado di svolgere una credibile azione di arbitrato nelle controversie locali finisce con l'assicurarsi il dominio su tutti: ed è appunto seguendo la sempre valida politica del "divide et impera" che Genova interviene da paciere nelle continue scaramucce dei feudatari rivieraschi divisi tra Guelfi (i Conti di Ventimiglia, i Grimaldi, i Vento) e Ghibellini (i Doria e gli Spinola). Guarda caso, i "lodi" dei suoi magistrati danno sempre ragione a quel feudatario che per primo giura fedeltà alla Repubblica.

Quando poi non bastano le carte da bollo, nella sua corsa al ruolo di grande potenza Genova non esita a ricorrere alle armi stroncando con la forza ogni resistenza come fa con l'eroica Ventimiglia - allora sua temibile rivale alleata con Pisa - assalita e conquistata una prima volta nel 1140, poi nel 1222 e definitivamente sgominata ed assoggettata(5) nel 1477 dopo secoli di sanguinose guerre di aggressione.

Anche Varigotti era un importante scalo marittimo con un bel porto attivo fin dall'epoca romana, ampliato poi sotto i Marchesi Del Carretto e dotato anche di un castello; un porto tanto importante che fu tra l'altro, nel 975, il centro di raccolta di tutte le galee cristiane in partenza per il vittorioso assedio di Frassineto. Nel 1341, Varigotti passa sotto Genova che, come primo provvedimento, ne decreta l'interramento del porto (che sparisce per sempre sotto la sabbia), cosicché un altro fiorente emporio sul Mediterraneo, ricco di commerci e prospettive, viene ridotto di colpo a borgo senza avvenire.

Non diversa sarà la sorte di Savona, che pagherà cara la colpa di essere "fiorentissima nei marittimi commerci con discapito della Capitale".  Nel 1525, Genova la aggredisce e conquista ed il doge Antoniotto Adorno non solo le impone la beffa del risarcimento dei danni di guerra per ben venticinquemila scudi d'oro, ma ne decreta anche qui il completo interramento del porto (che potrà essere ripristinato solo due secoli dopo) "... per toglierle i negozi, non essendo possibile che prenda il volo quell'uccello a cui sono levate le penne" come cinicamente commenta Agostino Maria Dè Monti. E così, anche il potenziale grande "volo" di Savona sul mare è stroncato per sempre.

Genova continua ad ingrassare a vista d'occhio succhiando il sangue alle sorelle città della Riviera: da ogni centro assoggettato non solo spreme ogni risorsa finanziaria oberandolo di tasse, ma a stroncarne sul nascere ogni possibile rivalità futura ne avvia immediatamente lo smantellamento economico, riducendone drasticamente ogni attività commerciale e soprattutto distruggendone cinicamente ogni potenzialità mercantile.

Chi tenta di ribellarsi fa la fine di Sanremo, che si rifiuta di pagare le tasse genovesi che la stanno strangolando: Genova manda immediatamente il suo esercito a stringere d'assedio la città che, dietro solenni promesse di incolumità, si arrende. I vincitori però, non appena entrati in Sanremo, impiccano tutti i rivoltosi, diroccano il castello alla Pigna, mozzano il campanile di San Siro portandosene a Genova il campanone, impongono a tutti i capifamiglia pesanti pagamenti, stringono ancor più i freni ad ogni forma di commercio e, sul porto, costruiscono ed occupano la fortezza di Santa Tecla che ancor oggi punta minacciosamente non verso un potenziale nemico esterno ma dritte contro la città le sue feritoie allora armate di potenti bocche da fuoco.

Pochi esempi come questo basteranno a Genova per avere poi buon gioco nel proporre offerte che non si possono rifiutare e comprare così per un pezzo di pane città(6) e castelli dai feudatari che, dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica, restano al loro posto in stato di totale sudditanza, di fatto esattori per conto di Genova, gratificati però dalla pudibonda qualifica ufficiale di "alleati".

Oltre alle tasse ed alle limitazioni dei commerci, poi, ogni città assoggettata subisce la decapitazione delle torri e la drastica riduzione di ogni fortificazione.

Tracce del cinismo genovese sono praticamente in ogni borgo del Ponente:
- nel 1203 l'esercito di Genova "...andò a Tabia (Taggia) e il castello onninamente (completamente) distrusse";
- nel 1204 "...due castella, che avean fortificate i villani di val d'Arosia e di Unegia, fece abbattere"; "Fulcone andò alle parti di Vintimilio - è scritto negli Annali del 1239 - nel luogo che chiamasi Santo Ampelio, dove gli uomini di Vintimilio, traditori del Comune di Genova, eransi ridotti; e ivi fu grande battaglia, nella quale molti furono da ambo le parti feriti a morte e uccisi. Finalmente il detto Fulcone e i Genovesi ch'erano con esso prevalsero nel combattere e abbatterono la torre di Santo Ampelio e le case e i ricoveri dei forestieri di Vintimilio e le terre distrussero e devastarono...";
- nel 1340 "alquanti nobili Doria assaltarono il castello di Pietralata (Prelà), che si teneva per la comunità, ed ammazzarono tutta la guardia del castello e lo distrussero insino ai fondamenti";
- nel 1341 il doge Simon Boccanegra fa "ruinare insino ai fondamenti la fortezza di Castellaro, vicino a Tabia";
- nel 1405 Genova dirocca il castello di Pornassio, acquisito con un "lodo" vent'anni prima...
...e così via, demolendo per tutta la Riviera.

Pur di far soldi, infatti, Genova non esita a mettere in gioco la vita stessa dei suoi sudditi che, privati di ogni difesa, tanto per cominciare non oseranno più ribellarsi; ma soprattutto, per respingere le aggressioni di terzi (ed ecco che anche i "Turchi" tornano buoni a Genova; e non meraviglia allora più di tanto la liberazione del terribile Dragut da parte dei Doria...), dipendono ora totalmente dal capriccio della loro matrigna che centellina cinicamente, in funzione della "fedeltà" del richiedente (ovvero dell'ammontare delle tasse che questi è disposto a pagare), ora l'autorizzazione a costruire una torre(7), ora l'invio di una galea armata. Tutti ingoieranno quindi ogni rospo pur di tenersela sempre buona.

E di rospi ce n'è da mandar giù, fra tasse di ogni genere, drastiche limitazioni ad ogni attività e continue leve di uomini, strappati da casa per essere sbattuti in armi sulle galee a sostenere la secolare, durissima guerra che la Superba porta alle rivali Repubbliche Marinare di Pisa, Amalfi e Venezia inseguendo il suo grande disegno di monopolio commerciale su tutto il Mediterraneo.

Alle soglie del Trecento, dissanguate e strangolate una ad una tutte le sorelle città della costa, Genova si è ormai assicurata il controllo diretto o indiretto (tramite il feudatario locale) su tutto il Ponente e può quindi finalmente allestire, con il determinante obbligato concorso di uomini e navi di tutti i centri rivieraschi, la grande flotta che nel 1284 sconfigge per sempre alla Meloria la rivale Repubblica di Pisa ("dei Pisani fu fatta sì grande strage - raccontano le cronache dell'epoca - che il mare da ogni parte appariva rosso, tanto era coperto di scudi, di remi e di cadaveri dei morti"), conquista Cagliari nel 1290 e, nel 1301, batte alla Curzola la flotta della Repubblica di Venezia.

Assurta così finalmente al rango di grande potenza, la Superba deve però ora difendere dagli altri rapaci suoi pari i propri domini ed in particolare il Ponente, su cui - rintuzzate le reiterate spedizioni dei provenzali d'Angiò per tutto il Milletrecento - si allunga ora sempre più minacciosa l'ombra espansionista dei Savoia che a tutti i costi vogliono un posto al sole e perseguono pervicacemente nei secoli questo disegno.

Il primo sbocco sul mare è acquisito dai Sabaudi nel 1391 con Amedeo VII che prende possesso di Nizza; quindi, nel 1425, vengono assoggettate Briga e Tenda, contee che i Savoia acquisteranno poi definitivamente dai Lascaris nel 1575 assieme alla signoria su Maro e Prelà. Oltre ai soldi, i Piemontesi ricorrono poi anche ai colpi bassi, come nel 1451 quando mandano ad occupare Olivetta San Michele il brigante Giovanni Benedetto di Sospello con una banda di centosessanta delinquenti (che ne saranno però cacciati l'anno dopo da Enrichetto di Dolceacqua).

Nel 1576, il duca Emanuele Filiberto di Savoia con un colpo da maestro taglia in due il territorio genovese comprando da Gian Gerolamo Doria addirittura la signoria su Oneglia che diventa capoluogo della provincia sabauda rinvigorendo fra l'altro la secolare rivalità (già dal lontano 1200) che ancor oggi la oppone a Porto Maurizio, rimasta invece sempre fedele (e "semper fidelis" ne è infatti il motto sul gonfalone municipale) a Genova.


(1)In riviera, i Benedettini realizzano diversi monasteri ma certo l'azione sociale più significante si irradiò dal convento dei Domenicani di Taggia, che fu per i primi cinque secoli dopo il Mille il principale polo culturale del Ponente; a quel centro va fra gli altri anche il merito di aver avviato la coltivazione dell'ulivo. A testimoniare il passato splendore, oggi affidate ai frati superstiti sono l'antica biblioteca (il cui accesso è riservato agli studiosi) e la ricca quadreria con opere dei Brea e di altri pittori del tardo Quattrocento ben esposte nella goticolombarda chiesa di S. Domenico.

(2)Se il popolo fa così i suoi primi passi verso la democrazia, per i signorotti locali la concessione di qualche diritto (che fra l'altro resterà spesso solo sulla carta) val bene l'ingente somma che fa incamerare, vera manna dal cielo per acquisire nuovi possedimenti comprandoli oppure conquistandoli con un esercito potenziato appunto con questi soldi; anche perché, concessa piena soddisfazione ai sudditi e risolte quindi le tensioni interne, il feudatario non avrà più chi gli rompe le scatole in casa sua e potrà quindi finalmente impegnarsi a fondo nell'andarle a rompere lui in casa d'altri.

(3)Ad illustrare le vicende dei paesi del Ponente ricordiamo per tutte le storia di Vallecrosia, prima del Mille feudo dei Conti di Ventimiglia, venduta poi a Roberto d'Angiò e da questi addirittura a Roberto Re di Napoli che nel Quattrocento la rivende alla Repubblica di Genova; da qui il borgo passa per seimila ducati d'oro al milanese Filippo Maria Visconti che lo rivenderà poi ai Lomellino; nel 1447 viene comprato dai Grimaldi di Monaco e quindi dal Re di Francia che lo rivende a sua volta nel Seicento ai Conti di Ventimiglia richiudendo il cerchio.

(4)D'altra parte contestazioni e litigi sono praticamente inevitabili: i ripetuti passaggi di proprietà e feudo costituiscono infatti vere e proprie fabbriche di guai degne del miglior Azzeccagarbugli. Prendiamo ad esempio il caso di Ranzo, proprietà dei Clavesana, che nel 1355 ne vendono metà ad Emanuele Del Carretto, e tre anni dopo a Genova l'altra metà, di cui restano però feudatari. Subito i Del Carretto piantano la grana sostenendo che i Clavesana avrebbero dovuto vendere a loro e non a Genova la seconda metà del borgo; la questione finisce davanti al magistrato Antonio Adorno il cui "lodo" stabilisce che i Del Carretto devono cedere i tre quarti di quanto possiedono del paese a Genova, conservandone però i diritti feudali. Detto così sembra facile, ma di fatto ora la minuscola Ranzo si ritrova divisa in due metà, di una delle quali è padrona Genova e feudatari i Clavesana, mentre l'altra metà è per tre quarti proprietà di Genova e per un quarto dei Del Carretto che sono però anche i feudatari dei tre quarti della mezza Ranzo posseduti da Genova; e va' ora a dividere senza far torto a nessuno il misero reddito di quei quattro poveri cristi che formano i cinquanta "fuochi" (famiglie) di Ranzo tra questi famelici "signori", sempre pronti a scannarsi alla prima discussione sul bottino!

(5)Le condizioni di resa sono durissime: oltre ad imporre pesanti sanzioni pecuniarie, fiscali e militari, il Podestà di Genova messer Martino di Sommariva "...dappoiché il conte Guillermo di Ventimilio e i suoi figli si mantennero infedeli e ribelli al Comune di Genova e inobedienti, e molte fellonie commisero contro il Comune di Genova" fa addirittura deviare il corso del Roia lasciando così a secco il fiorente portocanale che sorgeva alla foce, al cui imbocco fa anche affondare una nave carica di sassi per occluderne definitivamente l'accesso. Di quel porto Ventimiglia viveva e grazie ad esso prosperava; la sua distruzione ne stronca per sempre ogni prospettiva.

(6)Ad esempio, Santo Stefano viene comprata nel 1353 per ottanta "doppie" d'oro.

(7)Come accade a Porto Maurizio per la torre di Prarola, la cui costruzione dovette essere lungamente mercanteggiata pur dopo una terrificante scorreria guarda caso proprio di Dragut nel 1562.